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Inserto speciale di “Radio Romagna”

Questa chiacchierata con Andrea Cimatti l’ho fatta nel garage della casa di sua nonna, proprio in fondo alla Filanda Nuova, dove sono raccolti tanti suoi quadri di paesaggi romagnoli e inglesi; e grandi disegni su carta; e altri quadri con animali e simboli fantastici. E poi colori e pennelli: in quel garage c’è tutto il suo armamentario di pittore, che adopera quando si ferma a Faenza.
Andrea è un ragazzo quieto, serio, riflessivo. Stento, subito, a ritrovare in lui la «romagnolità» che gli dovrebbero aver trasmessa i suoi genitori faentini (e i miei carissimi amici) Ruggero Cimatti e Marcella Bertoni. Quasi che, trasferendosi qua e là per il mondo la sua famiglia, lui si sia fatto ricoprire come da una «patina anglosassone», dai luoghi ove più a soggiornato.

E invece no. Capisco dopo un po’, parlando con lui, mentre mi mostra le sue opere, e mi racconta la sua vita e le sue esperienze così varie, che Andrea ama la nostra terra più di noi, che qui siamo rimasti per tutta la vita. Anzi: che lui forse è riuscito a captare l’essenza della nostra gente, specialmente di quella della campagna e della collina, che cerca poi di trasferire, coi suoi colori intensi, nei suoi quadri.

Con la sua civiltà e la sua riservatezza, mostra di sé tanto di meno di quello che veramente vale, quasi un po’ avaro di esternare la sua ricchezza culturale, artistica spirituale e umana.

A differenza di noi «stanziali», che la nostra romagnolità la concentriamo in un’esibizione un po’ rumorosa e concitata dai nostri sentimenti, anche dei più validi, Andrea, la generosità e la sensibilità romagnole le possiede anch’egli , in misura straordinaria, ma «dentro», in profondità – e che tesoro per un bravo pittore come lui! E se non riesci a metterti in sintonia con lui con le parole, ci riesci, però, se ti fermi a guardare attentamente le sue fresche pitture e i suoi forti disegni.
– Giuliano Bettoli

Andrea Cimatti

1983-87: Laurea in Belle Arti Cornell University, Ithaca New York, Usa. Corsi di studio in pittura, storia dell’arte, disegno, grafica, incisione, litografia, fotografia e scultura. Premio della facoltà d’arte (Medaglia d’oro).

1984: Corso estivo di pittura – Istituto per Arte e Restauro, Firenze.

1983-86: Mostra d’Arte – Ithaca, New York (USA).

1987: Mostra personale di laurea – Ithaca, New York (USA).

1988: Mostra personale – Faenza (Ravenna), Italia.

1988: Mostra d’arte, Weybridge, Inghilterra.

Tu, Andrea, dove sei nato?

Qui, alla «S.P. Damiano», nel 1964. Mio padre era in Turchia, e mia madre era tornata provvisoriamente a Faenza dai suoi. Allora i miei genitori avevano la residenza a Bologna. Poi sono andati a Milano, poi all’estero…

Quand’è stato?

Nel 1972, ci siamo trasferiti a Città del Messico, una città enorme; nel ’75 a Miami, negli Stati Uniti, poi nell’81 in Inghilterra, a Londra, dove ho preso il diploma al liceo americano… P

Perché americano?

Siccome la mia famiglia cambiava casa e Stato così spesso, per avere uno studio scolastico unico, si può scegliere o il sistema internazionale svizzero o quello americano: hanno scuole un po’ dappertutto… io avevo già frequentato le scuole pubbliche americane a Miami e quindi in Inghilterra mi sono diplomato in una scuola americana. Di conseguenza, dopo, sono ritornato negli Stati Uniti per fare l’Università dove ho conseguito la laurea in Belle Arti. È uno studio diverso dall’Accademia italiana. Perché non si fa solo arte, ma anche storia, psicologia, corsi di fotografia, scultura, moltissima storia dell’arte… cercano di aprire gli orizzonti anche a chi si vuol poi dedicare solo alla pittura.

Andrea, tu sei figlio di genitori «visceralmente» faentini – Ruggero di Reda, la Marcella del Borgo S. Rocco (Formellino). Tu invece che cosa sei? Noi tutti, quelli che hanno vissuto sempre nello stesso posto, abbiamo dei ricordi intensi della nostra infanzia e giovinezza. Tu, giramondo, eppur ancora molto giovane, che ricordi hai?

Non sono certo quelli che hanno tanti miei amici di Faenza, che parlano spesso delle loro maestre della prima o della seconda elementare. I miei ricordi sono molto vaghi, perché non ho potuto parlare con nessuno della vita della mia infanzia, ho perduto subito quelli che mi erano stati compagni di scuola e di giochi… Milano, Messico, Inghilterra… le mie memorie sono rimaste solo «mie».

Ma tu hai degli amici?

Gruppi di amici li ho qui in Italia. La scuola americana che facevo in Inghilterra mi ha lasciato solo un amico: con lui quest’anno ho fatto un bel viaggio in Norvegia, dei giorni molto belli. Altri amici: ne ho un paio negli Stati Uniti. Al di là di questi… si perdono i contatti molto facilmente.

E però la tua famiglia, genitori e quattro figli, a volte dispersi un po’ per il mondo, è riuscita a fare il miracolo di rimanere unita saldamente.

Sì, c’è stato un momento che l’Alessandra era a Miami, Franco a Boston, io e Marco con babbo e mamma in Inghilterra; e poi anche oggi… sì, siamo stati sempre molto uniti. Non abbiamo mai badato al costo di una telefonata…

Oggi com’è la «situazione logistica» della tua famiglia?

Franco è ingegnere alla «Ferrari» (non nel reparto corse), Alessandra è a Milano nel reparto vendite dell’IBM; Marco che ha 14 anni è con babbo e mamma e in questi giorni dall’Inghilterra si sono trasferiti, definitivamente, ad Arese.

E adesso la pittura. Quando ti è venuta fuori la passione?

Fin da bambino, tanto tempo lo passavo a dipingere, a disegnare. A dodici, tredici anni la mania di ricopiare le opere di Michelangelo, la Cappella Sistina. Mi affascinavano tantissimo i capolavori dei grandi artisti italiani del Rinascimento, mi facevo regalare libri con quelle immagini…

Ma la scelta di seguire definitivamente questa strada…

Il liceo, in America, è unico. Però, dentro, ci sono classi con indirizzi diversi, con corsi anche di pittura, di disegno ecc. Così anche nelle scuole medie, e io li avevo frequentati. Mi piacevano tutte le materie, informatica compresa, ma il disegno in modo particolare. Quando, però, mi iscrissi all’università scelsi l’arte. Nell’università americana uno può cambiare indirizzo quando vuole, avevo così l’opportunità di indirizzarmi eventualmente verso un altro campo. Per scegliere definitivamente l’arte, bisogna essere proprio decisi: ci sono tanti sacrifici da affrontare poi nella vita, non ultimo quello economico.

L’università l’hai fatta in Inghilterra?

No, sono ritornato quattro anni, da solo, negli Stati Uniti. A Cornell, 200 chilometri da New York, una delle università americane dove c’è la più grande varietà di tipi di studi e di corsi: dall’indirizzo alberghiero a, che so, ai corsi per castrare i maiali…

Castrare i maiali, specializzazione alberghiera. Ma come? A livello universitario?

In America è necessario. Perché poi implicano problemi sanitari, giuridici.

E la tua laurea, invece?

Arte, con specializzazione in pittura. La laurea si otteneva con una tesi su un particolare soggetto, tesi sulla quale si lavorava negli ultimi due anni, specializzandosi sul particolare tipo di arte che avevo scelto. Alla fine dovevo fare una mostra con le opere eseguite in questi due anni. Più del cinquanta per cento dello studio era pratica: corsi di anatomia, disegno, pittura, fotografia, come ti ho già detto. Anche le lingue: ho studiato francese…

Giusto: che lingue conosci tu?

L’italiano l’ho imparato in casa, quindi è un italiano un po’ romagnolizzato; l’inglese, che conosco meglio dell’italiano; e poi un po’ di francese e un po’ di spagnolo (dal Messico) che ogni tanto salta fuori, quando ne ho bisogno.

Ma tuo babbo mi disse, se non mi sbaglio, che avevi studiato anche in Italia.

Sì, ho passato un’estate all’Istituto per l’Arte e il Restauro, a Firenze. Più che altro, L a Firenze, la cosa più bella è la grande spinta che ti viene dall’essere circondato dalle grandi opere d’arte, e poi da quelle che mi erano sempre piaciute di più sin da bambino: le Cappelle Medicee, gli Uffizi…

Andrea, sinora abbiamo parlato della tua pittura «teorica». Ma poi come e quando sei passato alla «pratica»? Come hai fatto a scegliere il «tipo» della tua pittura?

All’Università di Cornell c’erano diversi maestri, di svariate tendenze artistiche. Uno soprattutto, Langdon Quin, mi ha colpito. Ci insegnava che, prima del dipingere, bisognava vedere. Come diceva Paul Klee, il dipingere è il saper mettere dei colori uno accanto altro: comporre colori diversi in armonia, come suoni diversi nella musica. E quando facevo dei paesaggi, delle nature morte, la preoccupazione di base era proprio quella della scelta dei colori, che fossero i colori a esprimermi…

Ho visto che hai dipinto tanti paesaggi, specialmente romagnoli; le nostre colline, le nostre case di campagna, specie quelle abbandonate. Ma ho visto anche, e ne sono de rimasto colpito per il contrasto coi tuoi paesaggi – romagnoli e inglesi – i disegni fantastici degli ultimi tempi, e le forti variazioni che hanno per soggetto un uomo (o un Cristo-uomo) sfinito e sostenuto da altri uomini

Ho cominciato a dipingere sul serio nell’85/86. Tutte le estati passavamo un mese qui e facevamo i soliti giri: Brisighella, la Pietramora, ecc. Magari quando la nostra collina la vedi solo per un mese, te ne resta un’impressione più profonda. Colori che in altre parti del mondo non ci sono. È poi una costante della mia vita: il tornare a Faenza tutti gli anni. Mi colpiva il contrasto tra l’aridità di parte della collina e le zone coltivate così intensamente, come non si vede da nessun’altra parte. Quindi il desiderio di riuscire a dipingere l’essenza del paesaggio romagnolo.

Sei un solitario, Andrea?

No, mi piace la gente, ma mi piace molto anche il silenzio che c’è in collina: non è un silenzio assoluto… stare fuori una giornata intera, dalle 6 della mattina… le ore più belle son quelle del primo mattino o della sera inoltrata.

Ma tu, i tuoi paesaggi, li dipingi sul posto. o ti disegni degli «appunti» che poi completi a casa?

No, no: sempre sul posto. Per me il dipingere non è solo dipingere. Fa parte di un’esperienza. Se non si vive quello che si dipinge, vale molto di meno. Anche dalla memoria possono venir fuori delle cose belle, ma è il viverla che rende valida l’esperienza.

Paesaggi ne hai dipinti anche da altre parti, in Inghilterra…

Anche in America. I maestri ci mandavano fuori a lavorare su quel che vedevamo. La pittura moderna comincia da Cezanne, dai tardo impressionisti: dopo di loro non è più possibile lavorare come gli artisti precedenti. Guardare, e riuscire a esprimere nei dipinti le sensazioni provate…

Adesso sei sempre a Faenza?

Faccio la spola tra Faenza e Milano. Qui ho più spazio per lavorare, e poi qui ormai so dove andare per trovare certe luci, certi colori. Ti accennavo prima ai contrasti che si vedono in collina. Il contrasto per esempio fra i calanchi, aridi e i campi intensamente coltivati che finiscono proprio dove cominciano le crete dei calanchi. Uno si rende conto quanto sia duro lavorare la terra in collina; vedi i contadini coi trattori, la loro fatica, la loro vita impastata con la terra… i calanchi, poi, sono belli in se stessi, fantastici, crudeli quasi…

Può darsi, Andrea, che ci sia un rapporto fra il profilo contorto dei calanchi e quei disegni di animali fantastici, mostruosi, che popolano le tue opere di questi ultimi anni?

Certamente, anche se sono stati i bambini inglesi a ispirarmeli quei disegni. I

I bambini inglesi… in che modo?

Perché in Inghilterra ho insegnato disegno e arte in generale, a vari gruppi di età. In un complesso scolastico c’erano ragazzi dall’asilo al liceo. Un anno ho insegnato nelle elementari, un’ora la settimana in ogni classe; l’anno seguente nelle tre medie. Lavorare coi bambini è un’esperienza che ti cambia moltissimo. E la spontaneità soprattutto, la fantasia, la libertà da ogni inquadramento, come hanno gli adulti. Colpito dai disegni fantastici dei bambini, quasi immagini di sogno… mi sono messo a leggere Jung, per capire quei primi scarabocchi dei bimbi di 4 o 5 anni, il loro significato. Il bimbo vuole interpretare il suo scarabocchio, gli dà subito un significato. Fa un cerchietto e dice che è una giostra, fa un quadratino con la croce quello è un tesoro e così via.
Avevano delle spiegazioni così naturali per i loro disegni, che mi affascinavano. E così trovavo felice il loro modo di disegnare poi animali, fatti sempre con un po’ di macabro, parlo per i maschi: le bambine si mettono a disegnare coniglietti e fiorellini… Nei bambini 4 o 5 anni, c’è subito la violenza nei loro disegni. Gli squali, per esempio, che si mangia, cose o uomini, il sangue che gli esce dalla bocca, coccodrilli, creature fantastiche, dinosauri: sanno i nomi di tutti i dinosauri che sono esistiti…

Anche tu ti sei fatto affascinare dai dinosauri…

Sì, sì: è vero… perché se dipingo un paesaggio, lo voglia o no, debbo in qualche modo adeguarmi a ciò che vedo, ma se disegno un dinosauro non c’è limite alla mia fantasia, nelle forme, nei colori.

Ecco, i colori. Cambia la tecnica, a seconda del tipo di quadro?

Certo. Per i paesaggi uso l’olio, per i dipinti fantastici uso una tecnica più semplice ma, se vuoi, anche più complicata. Acquerelli, tempere, che poi viene assorbita dalla carta, sciacquo la carta, la strofino, tolgo via il colore, gliene rimetto dell’altra, uso china, poi inchiostro, torno a sciacquare e così via. Ci vuole anche più tempo a disegnare, quando mi ispiro a quella che sembra la facile tecnica dei bambini.

Può darsi che questa pittura fantastica sia più stimolante. Se dipingi dei paesaggi ripercorri delle strade che tanti altri, qui a Faenza e nel mondo, hanno fatto prima di te. C’è il pericolo di non dire nulla di nuovo. Se invece, partendo dai disegni dei bambini, ti abbandoni alla fantasia, è più facile che tu riesca a dire qualcosa di nuovo.

Non è poi che sono il primo in questo campo. C’è stato Mirò, c’è stato Klee e tantissimi altri: anche Picasso usava la fantasia dei bambini. Sino al punto di dire «A 20 anni sapevo disegnare come un adulto e mi ci è voluto una vita per sapere disegnare come un bambino». C’è del vero in questo, però io non riuscirei a fare l’uno senza l’altro. Non sono una persona che vive nel suo subconscio, vivo anche nella realtà e nella mia realtà c’è anche il paesaggio, e quella solitudine che mi emoziona quando sono immerso nel paesaggio romagnolo.

E l’uomo, la figura umana, sino a poco tempo fa mi pare che fosse fuori dai tuoi quadri.

Ho studiato molto la figura umana. Sino a pochi mesi fa, tutte le settimane in Inghilterra facevo un corso di disegno serale, per tre quattro ore ogni mercoledì, con un modello davanti. Adesso, che in Italia non ho ancora avuto l’occasione di disegnare una figura umana col modello davanti, la disegno ugualmente, quasi più libero.

Sì, ho visto qualcuno di questi ultimi disegni: uomini che soffrono sostenuti da altri uomini. Deposizioni laiche, direi… C’è stato un motivo, un’ispirazione che ti ha spinto a questo?

Con un’amica di Bresso ho fatto 15 giorni di volontariato nel Cottolengo (l’idea è nata nei giorni in cui siamo stati assieme a Spello, fra i Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld, dov’era Carlo Carretto). Per vivere la carità, e non solo parlarne. Là dentro mi ha colpito molto lo stato degli anziani, soli, impotenti, con problemi tremendi, che lottano ogni secondo per sopravvivere. Bisognava aiutarli in tutti i modi, metterli nelle carrozzelle, sostenerli in ogni momento. Quello che ho vissuto nel Cottolengo mi ha toccato un nervo particolare. E quando sono ritornato a disegnare, ho cercato, disegnando, di capire, come dire? di tradurre la pietà per questa situazione, di confrontare questa situazione con la vita «normale» nostra di tutti i giorni.

Hai ripetuto molte volte questo soggetto su questo tema…

Sì, in maniera quasi ossessiva . In pochi giorni ho fatto 30 40 opere abbastanza impegnative … L’ultimo disegno che ho fatto tu non l’hai ancora visto, è di un metro e cinquanta per tre.

Ma è «l’uomo finito» che ti colpisce?

Più che lui, è l’uomo che lo sorregge, che l’aiuta; l’uomo che condivide la sorte del debole , in modo che non sia più solo.

E adesso, Andrea, cosa pensi di fare in concreto. Magari coniugare l’insegnamento e la pittura; avere una sicurezza economica che ti lasci libero di dedicarti serenamente alla pittura?

Certo, ma bisogna guardare, alla fine di tutto, a quello che è più importante per vivere. E per me la cosa più importante è trovarmi bene con la gente, è vivere fra degli amici, come mi capita in Italia.
In Italia sto bene. Il lavoro verrà, e spero presto.


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